Riceviamo e pubblichiamo le riflessioni di Maria Pia Cirolla sul significato del perdono e sulla forza dell’amore…

<<Non c’è nulla di perso che non si possa ritrovare: Amare è “perdonare”

Un’esperienza comune che può attanagliare e stringere nella morsa del dolore ogni creatura, è fare i conti con circostanze ed episodi di tradimento. La parola tradire, dal latino, significa consegnare. Oltre al significato di tradimento, il verbo tradere, ha in sé la stessa radice del concetto incluso nella parola tradizione. Ogni generazione, infatti, ha il compito di portare avanti gli insegnamenti ricevuti, di comprendere il senso delle tradizioni; è interessante che in quel termine, tradizione, possa esserci già la radice del tradimento. In termini di tenerezza, bontà, amore e affetto si consegna non qualcosa, ma il proprio sé, perciò il tradimento è gravissimo, poiché si consegna ciò che è unico ad altri.

Tutto si fonda sulla fiducia, in uno spirito di comprensione. Questi sono i sentimenti che stanno alla base di ogni rapporto o relazione.  Sappiamo però che, non di rado, non si custodisce ciò che si vive, semplicemente perché non lo si comprende fino in fondo. Ogni tradimento, dalla fiducia agli affetti, è sempre adulterio ovvero ad alterum ire cioè prendere un’altra strada, certamente tralasciandone e tradendone quella delle origini. È per questo che ci si sente traditi, perché si è consegnato ad altri qualcosa di sé stessi, che sia della propria intimità o confidenza. Eppure, nel termine amore,  nel suo significato primo ed etimologico, esiste la parola morte (morsmortis). L’amore vero sarebbe assenza di morte, ma spesso è, o può diventare, un’esperienza fatta di grandi sofferenze, di dolori indicibili che possono provocare, se non una morte fisica in generale, uno spegnimento o un morte dello spirito, della psiche.

Un grande sacerdote divenuto poi vescovo,  da tutti ricordato come Don Tonino Bello, scriveva che “l’infinito del verbo amare è perdonare”. Si comprende così come la forza più grande contenuta nell’amore e, nell’amare, dinanzi alla fragilità o all’incomprensione umana, è proprio il perdono che è medicina e balsamo per ogni ferita.

Esiste nell’esperienza della bruttura che deturpa la bellezza dell’amore puro, contenuto nella menzogna che oscura la verità, nella cattiveria che accoltella la bontà!

Ma nonostante tutto sappiamo, perché sperimentato ed accolto come dono di Grazia, che il dolore provocato non avrà e non ha mai l’ultima parola sull’amore il quale, nonostante sia trafitto a morte, risorge con la forza del perdono.

Ora, perdonare non è assumere un atteggiamento stupido o far finta che nulla sia accaduto, ma vuole far ravvivare quel fuoco che, sotto la cenere, abbraccia l’altro entrando, nonostante il suo sé, in una comprensione umanamente incomprensibile!

Non fermarsi alle emozioni o alle sensazioni, ma, più di ogni altra cosa, non lasciare o permettere al male di concludere il romanzo di un bene, il canto di gioia e di Luce per lasciare lo spazio al buio o come la vita del seme crepato, senza farlo rinascere in spiga.

Perdono, letteralmente, significa dono per, ed è sempre gratuito, non meritato, non guadagnato, ma solo il risultato della generosità e della accoglienza di cuore dell’altro sé che te lo offre. Il perdono è amore puro, non apparente, ma forgiato nella e dalla sofferenza, nella e dall’incomprensione, in grado di produrre quel vino dell’ebbrezza limpida che nessun cattivo aceto può nascondere.

Non c’è nulla di perso che non si possa ritrovare amando, di morto che non possa risorgere e ritrovare vita, se con umiltà si ama perdonando e si perdona amando. L’ultima parola è l’amore, l’unica verità che tutto ritrova e nulla distrugge con la forza del perdono.

Nella preghiera questo amore che ci viene donato è gratuito, non ha fini, non ha scopi, non ha obiettivi cui tendere,  ha però una méta che è quella di ricondurre al dialogo col Padre, interrotto dal peccato, frutto della libera scelta umana, e vivere di conseguenza l’eredità cui si è chiamati quali figli.

Nel Vangelo di Matteo (18,22) si trova la famosa domanda rivolta da Pietro a Gesù che dice: Signore quante volte dovrò perdonare mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte? E Gesù gli risponde chiaramente: “Non ti dico fino a sette ma fino a settanta volte sette”.

Quindi bisogna perdonare sempre, come ha fatto Gesù che arrivò a perdonare il ladrone sulla Croce portandolo con sé in Paradiso o come fece San Giovanni Paolo II quando incontrò il suo attentatore dimostrando un grande coraggio e dando un grande esempio a tutta l’umanità. La cosa però non sempre riesce facile.

La domanda che lascio, non come provocazione, bensì come spunto per la nostra riflessione è questa: se fra due persone c’è incompatibilità o se un torto subìto risulta troppo grande e persino grave e non ci viene di perdonare vuol dire che non siamo buoni cristiani al punto che non godremo mai della Luce del Signore?

Questa riflessione per indurci a cogliere davvero l’essenza contenuta nel Vangelo, che di contro ci invita a perdonare “sempre”, non sotto condizione o ricatto ma perché nel “rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” si gioca la partita dell’essere cristiani adulti e aperti, non chiusi e conformisti. Grazie per avermi accompagnata in questa umile riflessione>>

Di Consuelo Noviello

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