Un trionfo che costò una Croce !!!
Domenica delle Palme, con la rievocazione di un grande evento per la storia dei fedeli di tutti i tempi, vediamo come la storia segua i fatti, le persone che non hanno accolto l’annuncio e il Messia. Dal trionfo alla Croce, il passo è breve.

Con la Domenica odierna, Solennità delle Palme, si apre lo scenario sull’Uomo Gesù, Figlio di Dio, Dio anche Lui, del Suo passaggio in questo mondo, della Sua Missione terrena per riacquistare l’umanità e ricondurla al Padre Suo. Nel calendario liturgico cattolico questa domenica è celebrata precedendo la festività della Domenica di Pasqua. Con essa ha inizio la Settimana Santa ma non termina la Quaresima, che finirà solo con la celebrazione dell’Ora Nona del Giovedì Santo, giorno in cui, con la celebrazione vespertina si darà inizio al Sacro Triduo Pasquale.

Questa festività è osservata non solo dai Cattolici, ma anche dagli Ortodossi e dai Protestanti. La Chiesa ricorda il trionfale ingresso di Gesù a Gerusalemme in sella ad un asino, osannato dalla folla che lo salutava agitando rami di palma come leggiamo nel Vangelo di Giovanni (12,12-15). Vi si narra che la folla stese a terra i mantelli e agitando festosamente rami di ulivo e di palma gli rendeva onore. La palma è simbolo di trionfo, acclamazione e regalità. Il suo significato è quello della vittoria, dell’ascesa, della rinascita e dell’immortalità. È allegoria dell’araba fenice che risorge dalle sue ceneri e dell’albero della vita, simbolo dell’immortalità dell’anima. La simbologia cristiana, presente fin dall’epoca paleocristiana è legata a un passo dei Salmi, dove si dice che come fiorirà la palma così farà il giusto: la palma infatti produce un’infiorescenza quando sembra ormai morta, così come (con una similitudine) i martiri hanno la loro ricompensa in Paradiso. Il ramoscello di ulivo è simbolo della pace, perché Dio stesso, a conclusione del diluvio promise nella Genesi (9, 11) “Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutto nessun vivente dalle acque del diluvio, né più il diluvio devasterà la terra”. L’episodio rimanda alla celebrazione della festività ebraica di Sukkot, la “festa delle Capanne”, in occasione della quale i fedeli arrivavano in massa in pellegrinaggio a Gerusalemme e salivano al tempio in processione. Ciascuno portava in mano e sventolava il lulav, un piccolo mazzetto composto dai rami di tre alberi, la palma, simbolo della fede, il mirto, simbolo della preghiera che s’innalza verso il cielo, e il salice, la cui forma delle foglie rimandava alla bocca chiusa dei fedeli, in silenzio di fronte a Dio, legati insieme con un filo d’erba (Lv. 23,40). Spesso attaccato al centro c’era anche una specie di cedro, l’etrog (il buon frutto che Israele unito rappresentava per il mondo). Il cammino era ritmato dalle invocazioni di salvezza (Osanna, in ebraico Hoshana) in quella che col tempo divenuta una celebrazione corale della liberazione dall’Egitto: dopo il passaggio del mar Rosso, il popolo per quarant’anni era vissuto sotto delle tende, nelle capanne; secondo la tradizione, il Messia atteso si sarebbe manifestato proprio durante questa festa. Come entra a Gerusalemme Gesù?

Gesù fa il suo ingresso a Gerusalemme, sede del potere civile e religioso della Palestina, acclamato come si faceva solo con i re però a cavalcioni di un’asina, in segno di umiltà e mitezza. La cavalcatura dei re, solitamente guerrieri, era infatti il cavallo. La folla, illuminata dallo Spirito, lo acclama come Re. Giorni dopo, sobillata dai capi, ne chiederà la Crocifissione. Ma Gesù cammina consapevole verso la sua ora, aderendo alla volontà del Padre. Il suo passaggio attraverso il mistero della morte è carico di tutto il dolore e delle angosce di ogni uomo. Eppure, il Calvario è preludio alla luce del Risorto che ci ricorda che “in nessun altro c’è salvezza”. L’essere umano è sempre “condotto” dentro una prova, in cui avverte la contrapposizione tra la carne e lo Spirito ed è chiamato a scegliere: “Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito (cfr., Rm 8, 5-8). L’ora, verso cui Gesù ha camminato con consapevolezza, decisione e adesione alla volontà del Padre, è un passaggio di profonda oscurità, che nasconde e addita nello stesso tempo una sfolgorante luce di gloria: non ancora quella della Risurrezione, ma quella altrettanto lucentissima della Passione. Il passaggio di Gesù attraverso il mistero della morte, la sua Pasqua, è intensamente carico di tutto il dolore umano e dell’angoscia vissuta da ogni persona nel momento del trapasso come dall’intera umanità nei molteplici drammi che la affliggono e la consumano. Non si tratta soltanto di solitudine fisica ma esistenziale, come avverte anche il testo poetico di un cantautore italiano: “quando si muore, si muore soli” (De André, Il Testamento). Gesù nella sua agonia, sofferta per amore, ha avuto paura, ha temuto la morte esprimendo due particolari sentimenti: da una parte la lacerante coscienza della debolezza della carne e l’intenso bisogno della compagnia dei suoi amici, che invece, oppressi dal sonno e dalla paura, lo hanno abbandonato, dall’altra la consapevolezza di avere accanto a sé il Padre Suo. Che cosa era successo? Come è stato possibile che, dall’acclamazione, si fosse passati alla crocifissione? Per la delusione. Quel profeta galileo, che tanti segni e prodigi aveva compiuto, non era quello che si aspettavano. Proviamo a immaginare l’attesa messianica di quel tempo. Non è difficile, è la stessa di oggi. La pressione fiscale, le violenze, la degradazione morale, la dittatura culturale che soffoca ogni vagito di libertà intellettuale e religiosa. Sì, sì, anche in Italia, eccome. E poi il terrorismo, e la follia che si impadronisce di un aereo, e perché domani non dovrebbe toccare a me, magari sulla metropolitana, o a un figlio in gita con gli amici. Come quel giorno di duemila anni fa anche noi siamo ostaggio della paura, e un senso di sfinimento che sembra proprio di non farcela più. E parliamo delle cose più elementari, della spesa e della scuola dei figli, del lavoro e perfino delle chiacchierate con gli amici.

Lo diceva Papa Francesco: “La Chiesa come madre, non abbandona mai la famiglia, anche quando essa è avvilita, ferita e in tanti modi mortificata. Vi chiedo di pregare per le famiglie sfinite e stanche”.  Coraggio allora, riconosciamo d’essere peccatori veri, come e più di ogni altro; apriamo gli occhi e accettiamo di essere gli ultimi, i più indegni. Allora ci sentiremo abbracciare e issare sul Legno del martirio, per agitare, con la “moltitudine immensa che è passata attraverso la grande tribolazione e ha lavato le vesti e le ha rese candide nel sangue dell’Agnello”, le palme del nostro martirio unito a quello di Cristo, il Pastore umile delle nostre anime. Per questo siamo stati scelti e chiamati dal mondo: per testimoniare con la nostra vita la vita di Cristo risorto in noi, l’amore più forte della morte, la misericordia che dissolve il male che è alle porte di casa. Domenica delle Palme significa proprio questo, Domenica del martirio che salva il mondo; Domenica di Cristo e dei cristiani, la tua e la mia Domenica, che apre le porte del Mistero Pasquale a chiunque ci è vicino e brancola nel buio dei peccati e della menzogna. 

Prof.ssa Maria Pia Cirolla – Teologa