Riceviamo e pubblichiamo le riflessioni di Maria Pia Cirolla dottore in Teologia della Vita Spirituale.
«Parla, Signore, che il tuo servo ascolta» (1 Samuele 3,10)

Queste parole esprimono bene il fatto che l’ascolto, secondo la rivelazione ebraico – cristiana, è l’atteggiamento fondamentale della preghiera. E contestano un nostro frequente atteggiamento che si vuole di preghiera ma che riduce al silenzio Dio per lasciar sfogare le nostre parole.

Prima l’ascolto

La preghiera cristiana è anzitutto ascolto: essa infatti non è tanto espressione dell’umano desiderio di auto trascendimento, quanto piuttosto accoglienza di una presenza, relazione con un Altro che ci precede e ci fonda. Per la Bibbia, Dio non è definito in termini astratti di essenza, ma in termini relazionali e dialogici: egli è anzitutto colui che parla, e questo parlare originario di Dio fa del credente un chiamato ad ascoltare. È emblematico il racconto dell’incontro di Dio con Mosè nel roveto ardente (cfr. Esodo 3,1 e sgg.): Mosè si avvicina per vedere lo strano spettacolo del roveto che brucia senza consumarsi, ma Dio vede che si era avvicinato per vedere e lo chiama dal roveto interrompendo il suo avvicinarsi. Il regime della visione è quello dell’iniziativa umana che porta l’uomo a ridurre la distanza da Dio, è il regime del protagonismo umano, è scalata dell’uomo verso Dio, invece il Dio che si rivela fa entrare Mosè nel regime dell’ascolto e conserva la distanza tra Dio e uomo che non può essere valicata affinché possa esservi relazione: «Non avvicinarti!» (Esodo 3,5). E ciò che era uno strano spettacolo diviene per Mosè presenza familiare: «Io sono il Dio di tuo padre» (Esodo 3,6). A Prometeo che sale l’Olimpo per rubare il fuoco si oppone Mosè che si ferma di fronte al fuoco divino e ascolta la Parola.

A partire da quell’ascolto originario e generante, la vita e la preghiera di Mosè saranno due aspetti inscindibili dell’unica responsabilità di realizzare la parola ascoltata. Nell’ascolto Dio si rivela a noi come presenza antecedente ogni nostro sforzo di comprenderla e di coglierla. Dunque il vero orante è colui che ascolta. Per questo «ascoltare è meglio dei sacrifici» (1 Samuele 15,22), è cioè meglio di ogni altro rapporto tra Dio e uomo che si fondi sul fragile fondamento dell’iniziativa umana. 

Se la preghiera è un dialogo che esprime la relazione tra Dio e l’uomo, l’ascolto è ciò che immette l’uomo nella relazione, nell’alleanza, nella reciproca appartenenza: «Ascoltate la mia voce! Allora io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo» (Geremia 7,23). Capiamo allora perché tutta la Scrittura sia attraversata dal comando dell’ascolto: è grazie all’ascolto che noi entriamo nella vita di Dio, anzi, consentiamo a Dio di entrare nella nostra vita. Il grande comando dello Shemà Israel (Deuteronomio 6,4 e sgg.), confermato da Gesù come centrale nelle Scritture (Marco 12,28-30), svela che dall’ascolto («Ascolta, Israele») nasce la conoscenza di Dio («Il Signore è uno») e dalla conoscenza l’amore («amerai il Signore»).

Ascolto perciò è una matrice generante, è la radice della preghiera e della vita in relazione con il Signore, è il momento della fede (fides ex auditu: Romani 10,17), e dunque anche dell’amore e della speranza. L’ascolto è generante: noi nasciamo dall’ascolto. È l’ascolto che immette nella relazione di filialità con il Padre, e non a caso il Nuovo Testamento indica che è Gesù, il Figlio, Parola fatta carne, che deve essere ascoltato: «Ascoltate lui!» dice la voce dalla nube sul monte della Trasfigurazione indicando Gesù (Marco 9,7). Ascoltando il Figlio noi entriamo nella relazione con Dio e possiamo nella fede rivolgerci a Lui dicendo: «Abbà» (Romani 8,15; Galati 4,6), «Padre nostro» (Matteo 6,9). Ascoltando il Figlio veniamo generati a figli. Con l’ascolto la Parola efficace e lo Spirito ricreatore di Dio penetrano nel credente divenendo in lui principio di trasfigurazione, di conformazione al Cristo. Ecco perché essenziale al credente è avere «Un cuore che ascolta» (1 Re 3,9). È il cuore che ascolta attraverso l’orecchio! Cioè l’orecchio non è semplicemente, secondo la Bibbia, l’organo dell’udito, ma la sede della conoscenza, dell’intelletto, dunque si trova in rapporto strettissimo con il cuore, il centro unificante che abbraccia la sfera affettiva, razionale e volitiva della persona. Ascoltare significa pertanto avere «sapienza e intelligenza» (1 Re 3,12), discernimento. Se l’ascolto è così centrale nella vita di fede, esso allora necessita di vigilanza: occorre fare attenzione a ciò che si ascolta (Marco 4,24), a chi si ascolta (Geremia 23,16; Matteo 24,4-6.23; 2 Timoteo 4,1-4), a come si ascolta (Luca 8,18). Occorre cioè dare un primato alla Parola sulle parole, alla Parola di Dio sulle molteplici parole umane, e occorre ascoltare con «cuore buono e largo» (Luca 8,15). 

Come ascoltare la Parola? La spiegazione della parabola del seminatore (Marco 4,13- 20; Luca 8,11-15) ce lo indica. Occorre saper interiorizzare, altrimenti la Parola resta inefficace e non produce il frutto della fede (Marco 4,15; Luca 8,12); occorre dare tempo all’ascolto, occorre perseverare in esso, altrimenti la Parola resta inefficace e non produce il frutto della saldezza, della fermezza e della profondità della fede personale (Marco 4,16-17; Luca 8,13); occorre lottare contro le tentazioni, contro le altre «parole» e i «messaggi» seducenti della mondanità, altrimenti la Parola viene soffocata, resta infeconda e non porta il frutto della maturità di fede del credente (Marco 4,18-19; Luca 8,14). E se non vi sarà questo ascolto non vi sarà neppure preghiera! Ma che cosa vuol dire pregare? Pregare è difficile. Non si può definire che cosa sia la preghiera. Perché pregare non è recitare formule, ma è assumere uno stile di vita. Quindi ognuno di noi, ogni Comunità, deve “inventare” il suo modo di pregare. Per la Bibbia pregare è “ascoltare”.

«Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!» Ma in che modo Dio mi può parlare? Attraverso la sua Parola, la Scrittura. Infatti il racconto della trasfigurazione ci dice che Gesù ha accanto a sé Mose ed Elia, due simboli che rappresentano tutta la Scrittura. Per Gesù pregare vuol dire innanzitutto ascoltare, meditare, interpretare la Parola di Dio. Ma a che cosa serve pregare? Per imparare a “trasfigurare” la vita. Imparare a guardare la vita in modo diverso, attraverso lo sguardo di Dio. Significa diventare figli nel Figlio. Infatti che cosa dice ancora il racconto? «Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto». 

Pregare trasforma, cambia la vita. Anche noi, come i discepoli, dobbiamo imparare a “trasfigurare” la nostra vita. Dobbiamo imparare ad “allenare lo sguardo” per intravvedere il divino, il positivo che c’è attorno a noi. Pensiamo a quante cose facciamo in un giorno, quante persone incontriamo, quanti fatti accadono. Sicuramente ognuno di noi ha fatto e fa continuamente piccole esperienze di “trasfigurazione”:  è l’incontro con una persona speciale, un fatto che fa riflettere, una malattia che mette in crisi, un libro che affascina, un film che coinvolge, una morte che costringe a pensare.

Posso vivere la mia giornata nell’indifferenza e nella banalità. Ma posso anche imparare a guardare tutto con lo stupore e la meraviglia di chi sa cogliere il divino nell’umano: la bellezza di un fiore, la profondità di uno sguardo, il calore di un abbraccio. E di chi sa trasformare l’umano in divino.
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Di Consuelo Noviello

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