Deserto Via dell’Ascolto. Quando l’anima incontra la Vita ha meno paura

Il vero cambiamento parte da un’azione tanto semplice quanto sottovalutata: ascoltare. Nella cultura del trambusto e del suono costante, ricordarsi di sentire è una sfida che, se vinta, offre inestimabili ricompense: più impariamo ad ascoltare, più la nostra attenzione aumenta, più il nostro lato intuitivo si potenzia, più la chiarezza si fa largo nel caos della nostra mente. L’ascolto può creare connessioni e accendere una creatività profonda, che si declina in ogni aspetto della nostra vita. Anche quest’anno arriva il Tempo forte liturgicamente parlando che conosciamo bene e che chiamiamo “Quaresima” questi 40 giorni che separeranno dall’evento centrale di tutta la cristianità, la Pasqua del Signore nei suoi giorni centrali del Triduo che ci farà rivivere, i momenti più significativi della missione del Salvatore.

In verità l’inizio di questo tempo si apre in maniera insospettatamente violenta, con una aria di guerra che soffia alle porte e con una pandemia messa a tacere per qualche giorno, dal caos e frastuono delle bombe a squarciare palazzi. Inizia così quest’anno la quaresima in questa parte del mondo e si aspetta che la ragione possa riuscire a prendere il sopravvento sulle minacce di morte estese per la semplice ragione del potere, cieco e sordo e quasi indifferente, al grido dei più fragili che, ancora una volta, resta inascoltato da più parti.

Certo l’essere umano forse ha poca memoria, e nel suo non ricordo, poco ascolto, di quei tratti dolorosi e laceranti di una storia che ha già disegnato scenari di morte, non si ricorda, non lo considera, anzi se ne serve per ottenere ragioni irragionevoli. Partendo da alcuni spunti dettati dalla Scrittura, il passo di Isaia 40,3 “Nel deserto preparate la via al Signore” è di grande importanza, in quanto il popolo d’Israele è stato forgiato nel deserto. Ora, in ebraico, vi sono diversi termini per indicare il deserto: midbār, che di solito indica una steppa o una terra sotto il sole cocente (Cfr Ger 23,10); ‘ărābāh, che di solito indica quegli affossamenti presso il Mar Morto (Cfr. Gb 24,5); šěmāmāh, che indica spesso delle devastazioni e ricorre anche in casi di maledizione (Cfr. Es 23,29) e altri termini simili. Ora per giungere a tale momento, come si può notare nella Scrittura, il popolo d’Israele ha dovuto percorrere molta strada, e poco prima ancora è stato condotto da Mosè, dopo l’uscita dall’Egitto, verso il deserto di Sur (Cfr. Es 15,22). Anche per il profeta Elia il deserto funge da luogo per l’incontro con Dio (Cfr. 1Re 19,18). Forse la stessa strada che dovrà ancora percorrere, nei vari deserti della vita, l’essere umano moderno per poter raggiungere quell’equilibrio di vita dove regnerà la pace. Ma c’è un termine che molte volte è soggetto a quel gioco di parole che è tipico dei rabbini – gioco che esprime grande abilità e al contempo profondità. Questo termine è dābār. Tale termine, più che indicare la «parola», indica il «contenuto» espresso dalla parola, per cui esprime anche la forza stessa che possiede la parola in quanto tale. Il gioco di parole è che spesso si pongono accanto midbār (che indica il deserto) e dābār (che indica la profondità contenutistica della parola). Questo è molto interessante e per certi versi articolato, ma già così è possibile cogliere il messaggio: il deserto è il luogo per eccellenza della Parola, la quale risulta massimamente udibile e alla quale è possibile rispondere in piena consapevolezza. Ed è importante sottolineare che l’ascolto, già per il fatto di esser tale, implica una posizione attiva del soggetto e lo coinvolge totalmente. Ma qual è dunque la difficoltà che dal deserto dell’AT porta al deserto del NT ovvero alla mancanza di quell’ascolto della Parola che si è fatta carne? Il deserto è un’educazione alla conoscenza di sé, e forse il viaggio intrapreso dal padre dei credenti, Abramo, a risposta dell’invito di Dio “Va’ verso te stesso!”, coglie il senso spirituale del viaggio nel deserto.  Il deserto è il luogo delle ribellioni a Dio, delle mormorazioni, delle contestazioni. Anche Gesù vivrà il deserto come noviziato essenziale al suo ministero: il faccia a faccia con il potere dell’illusione satanica e con il fascino della tentazione svelerà in Gesù un cuore attaccato alla nuda Parola di Dio. Fortificato dalla lotta nel deserto Gesù può intraprendere il suo ministero pubblico! Il deserto appare anche come tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, ma si attraversa il deserto! Quaranta anni, quaranta giorni: è il tempo del deserto per tutto Israele, ma anche per Mosè, per Elia, per Gesù. Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza. E forse, l’immensità del tempo del deserto è già esperienza e pregustazione di eternità! Ma il deserto è anche cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito “disertare”, ma la tentazione è la regressione, la paura che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù egiziana al rischio dell’avventura della libertà.

Una libertà che non è situata al termine del cammino, ma che si vive nel cammino. Ma per compiere questo cammino occorre essere leggeri, con pochi bagagli: il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spogliazione.

Il deserto è magistero di fede: esso aguzza lo sguardo interiore e fa dell’uomo un vigilante, un uomo dall’occhio penetrante. L’uomo del deserto può così riconoscere la presenza di Dio e denunciare l’idolatria. Possa questo tempo far rifiorire il fiore della speranza e rendere umano davvero il sentimento della Carità compassionevole, per evitare che i piccoli, giunti a Dio possano gridargli il dolore loro inflitto ingiustamente, in ogni direzione e in ogni senso.

 

Di Consuelo Noviello

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